venerdì 6 giugno 2008

Dedicato a Deborah e Lorenzo



IL TRENO HA FISCHIATO...


Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e lo ripetevano tutti i compagni d'ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall'ospizio, ov'erano stati a visitarlo. Pareva provassero un gusto particolare a darne l'annunzio coi termini scientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incontravano per via: - Frenesia, frenesia. - Encefalite. - Infiammazione della membrana. - Febbre cerebrale. E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizio al gajo azzurro della mattinata invernale. - Morrà? Impazzirà? - Mah! - Morire, pare di no... - Ma che dice? che dice? - Sempre la stessa cosa. Farnetica... - Povero Belluca! E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in cui quell'infelice viveva da tant'anni, il suo caso poteva anche essere naturalissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sintomo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suo naturalissimo caso. Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s'era fieramente ribellato al suo capo-ufficio, e che poi, all'aspra riprensione di questo, per poco non gli s'era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trattasse d'una vera e propria alienazione mentale. Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente di Belluca non si sarebbe potuto immaginare. Circoscritto... sì, chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni; note, libri-mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo. Casellario ambulante: o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi. Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue solenni bastonature della sorte. Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'una improvvisa alienazione mentale. Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprio aveva il diritto di fargliela, il capo-ufficio. Già s'era presentato, la mattina, con un'aria insolita, nuova; e - cosa veramente enorme, paragonabile, che so? al crollo d'una montagna - era venuto con più di mezz'ora di ritardo. Pareva che il viso, tutt'a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che i paraocchi gli fossero tutt'a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancato d'improvviso all'intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt'a un tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoni non avvertiti mai. Così ilare, d'una ilarità vaga e piena di stordimento, s'era presentato all'ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente. La sera, il capo-ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri, le carte: - E come mai? Che hai combinato tutt'oggi? Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un'aria d'impudenza, aprendo le mani. - Che significa? - aveva allora esclamato il capo-ufficio, accostandoglisi e prendendolo per una spalla e scrollandolo. - Ohé, Belluca! - Niente, - aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d'impudenza e d'imbecillità su le labbra. - Il treno, signor Cavaliere. - Il treno? Che treno? - Ha fischiato. - Ma che diavolo dici? - Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L'ho sentito fischiare... - Il treno? - Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere! Gli altri impiegati, alle grida del capo-ufficio imbestialito, erano entrati nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi. Allora il capo-ufficio - che quella sera doveva essere di malumore - urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato la mansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli. Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore di tutti, s'era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia del treno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch'egli aveva sentito fischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo. Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all'ospizio dei matti. Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh, un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subito dopo, soggiungeva: - Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove? E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quelli d'un bambino o d'un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dalle labbra. Cose inaudite, espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tanto più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, per qual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s'era mai occupato d'altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco e sordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti di montagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi, sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite. Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell'improvvisa alienazione mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia, ma neppur una lieve sorpresa. Difatti io accolsi in silenzio la notizia. E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi: - Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito. Qualche cosa dev'essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spiegare, perché nessuno sa bene come quest'uomo ha vissuto finora. Io che lo so, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l'avrò veduto e avrò parlato con lui. Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato, seguitai a riflettere per conto mio: «A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita "impossibile", la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è "impossibile". Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendo astrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mostruosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; ma quale dev'essere, appartenendo a quel mostro. Una coda naturalissima.» Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca. Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della casa si domandavano con me come mai quell'uomo potesse resist
ere in quelle condizioni di vita. Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera: queste due, vecchissime, per cataratta; l'altra, la moglie, senza cataratta, cieca fissa; palpebre murate. Tutt'e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perché nessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte dei mariti, l'una con quattro, l'altra con tre figliuoli, non avevano mai né tempo né voglia da badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre soltanto. Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Belluca dar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, in casa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinque donne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt'e dodici, non trovavan posto nei tre soli letti della casa. Letti ampii, matrimoniali; ma tre. Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti, urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni sera litigavano anch'esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo e si ribellava quando veniva la sua volta. Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tarda notte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudevano da sé. Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, e subito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava a stento, più intontito che mai. Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fatto naturalissimo. Quando andai a trovarlo all'ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo e per segno. Era, sì, ancora esaltato un po', ma naturalissimamente, per ciò che gli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi, che lo credevano impazzito. - Magari! - diceva. - Magari! Signori, Belluca, s'era dimenticato da tanti e tanti anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva. Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro, come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d'una nòria o d'un molino, sissignori, s'era dimenticato da anni e anni - ma proprio dimenticato - che il mondo esisteva. Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forse per l'eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d'addormentarsi subito. E, d'improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito, da lontano, fischiare un treno. Gli era parso che gli orecchi, dopo tant'anni, chi sa come, d'improvviso gli si fossero sturati. Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d'un tratto la miseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiato s'era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt'intorno. S'era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso, ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s'allontanava nella notte. C'era, ah! c'era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormenti, c'era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s'avviava... Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine era stato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì, sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui!. E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr'egli qua, come una bestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Il mondo s'era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell'arida, ispida angustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per travaso violento, nello spirito. L'attimo, che scoccava per lui, qua, in questa sua prigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui con l'immaginazione d'improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo per città note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido, questo stesso palpito del tempo. C'erano, mentr'egli qua viveva questa vita «impossibile», tanti e tanti milioni d'uomini sparsi su tutta la terra, che vivevano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch'egli qua soffriva, c'erano le montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti... Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c'erano gli oceani... le foreste... E, dunque, lui - ora che il mondo gli era rientrato nello spirito - poteva in qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, per prendere con l'immaginazione una boccata d'aria nel mondo. Gli bastava! Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S'era ubriacato. Tutto il mondo, dentro d'un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbe ricomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva. Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo-ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo-ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: doveva concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l'altra da registrare, egli facesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo: - Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fischiato...

giovedì 5 giugno 2008

Vi ho mai raccontato la storia di Cromo??? Ne hanno tratto anche un cartone animato tempo fa... per ovvi motivi hanno cambiato il nome... tutto il resto è pura verità .. compresa la lontramobile e i voli farfalla air :D




[youtube http://www.youtube.com/watch?v=yhPTM629atA&hl=it]

e poi oggi girà così... però è bellissima


Vola, colomba bianca, vola,
diglielo tu che tornerá.

Dio del ciel se fossi una colomba
vorrei volar laggiù dov'è il mio amor,

che inginocchiata a San Giusto
prega con l'animo mesto:
Fá che il mio amore torni, ma torni presto.

Vola, colomba bianca, vola,
diglielo tu che tornerò.
Dille che non sarà più sola
e che mai più la lascerò.

Fummo felici uniti e ci han divisi,
ci sorrideva il sole, il cielo e il mar.
Noi lasciavamo il cantiere
lieti del nostro lavoro
e il campanon din don ci faceva il coro.

Vola, colomba bianca, vola,
diglielo tu che tornerò.
Dille che non sarà più sola
e che mai più la lascerò.

Tutte le sere m'addormento triste
e nei miei sogni piango e invoco te.
Pure el mi vecio te sogna
pensa alle pene sofferte
piange e nasconde il viso tra le coperte.

Vola, colomba bianca, vola.
Dio del ciel diglielo tu

Così.. nonostante le gufate della balorda... pare che i biglietti per vasco ci siano.... Certo andrò con il bastone visto che cammino ancora come Quasimodo, però ci vo ecco!!!


Non son una fan accanita di Vasco ma le sue canzoni sono legate a molti ricordi e a molte persone e qualcuna mi appartiene un po'... vediamo se ricordo bene


OGNI VOLTA: DANIELE


COLPA D'ALFREDO: DANIELE - CESARE


UNA CANZONE PER TE: IL MIO PICCOLO


STUPENDO: LA MICHI..... e le volte che faceva l'aeroplano in discoteca... 15 anni fa....


LA STREGA: LA MARY


LAPO: REWIND


canzoni mie


VIVERE


UN SENSO


VOGLIO ANDARE AL MARE


SALLY


E ... in questo periodo canto spesso (incazzata) questa


Jenny non vuol più parlare
non vuol più giocare
vorrebbe soltanto dormire
Jenny non vuol più capire
sbadiglia soltanto
non vuol più nemmeno mangiare
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire
Jenny ha lasciato la gente
a guardarsi stupita
a cercar di capir cosa
Jenny non sente più niente
non sente le voci che il vento le porta
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire

Io che l'ho vista piangere
di gioia e ridere
che più di lei la vita
credo mai nessuno amò
io non vi credo
lasciatela stare
voi non potete

Jenny non può più restare
portatela via
rovina il morale alla gente
Jenny sta bene
è lontano...la curano
forse potrà anche guarire un giorno
Jenny è pazza
c'è chi dice anche questo

Jenny è pazza
c'è chi dice anche questo

Jenny ha pagato per tutti
ha pagato per noi
che restiamo a guardarla ora
Jenny è soltanto un ricordo
qualcosa di amaro da spingere giù in fondo
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire
Jenny è stanca
Jenny vuole dormire

















































1 www.splinder.com/myblogrolling/manage/335707
1 Google.it (Sarebbe facile guardarsi appena e scivolare via)
1 Google.it (titoli ultime canzoni maggio e giugno 2008)
1 Google.it (la marea)
1 Google.it (come si chiama la canzone che dice ti bacio piano piccola mia)
1 Google.it (cesena mercoledì piove)
1 Google.it (DIMENTICARE QUALCUNO)
1 Google.com (poesia + colore + luna)
1
1
1 Google Immagini.it (legnago, VR)



Prendo in stecca una rubrica in disuso da Monica... magari solo per sta volta magari no. E' che sono contenta delle chiavi di ricerca di questa giornata C'è una canzone che appartiene alla mia storia



Sarebbe facile guardarsi appena e scivolare via
ma la mano mia cade nella tua
e col fatto che si resta amici
come è giusto che sia
scarto l'idea, di domandare a te.
Senza di me

cosa si fa nei pomeriggi troppo blu
senza me
chi sarà a darti un bacio di più.

Sarebbe inutile parlare ancora dei problemi miei
li conosci e sai, che mi arrabbierei
cos mi chiedi se ho mangiato o no
che bambino sei, non cambi mai
....
....


e poi canzoni e la marea e ancora la ricerca della canzone degli Stadio. E la poesia Marino Moretti


Batte la pioggia il grigio borgo, lava
la faccia della casa senza posa,
schiuma a piè delle gronde come bava.

Tu mi sorridi. Io sono triste. E forse
triste è per te la pioggia cittadina,
il nuovo amore che non ti soccorse,

il sogno che non ti avvizzì, sorella
che guardi me con occhio che s’ostina
a dirmi bella la tua vita, bella,

bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,






E poi "dimenticare qualcuno" chi cerca on line questa chiave? Cmq ha sicuramente sbagliato indirizzo, sono negata nelle amnesie. Infine le due più belle




poesia + colore + luna = marea


E qualcuno perso sull'argine, cercando Legnago ha trovato me.






mercoledì 4 giugno 2008

FOTOPOESIA (?)

LA MUSICA DELLE MANI


La musica è fatta di mani,
mani che suonano
piste e canali
e gli alti e bassi
di questa serata






Mani che sentono
la musica sulle dita
e arpeggiano nel vuoto
la musica che è nell'aria,
accarezzano uno strumento
che non potrà mai scordarsi
come queste sere
come questi volti
come ogni volta che ritroviamo
questa unione.



La musica è fatta di mani
che corrono sulle corde,
che fondono l'accordo
con il plettro e la pelle
ora forte, ora dolce
carezzando
come fosse un ventre,
una sorgente,
una donna.




La musica è fatta di mani
che si stringono da sole
e vibrano di emozione,
che tamburellano,
giocano
e si ritrovano ancorate ad una nota
ad un pensiero
ad un ricordo
alla paura di un errore
e alla certezza di una nuova sfida
a noi stesse
ad ogni smorfia
e ad ogni sorriso.



La musica è fatta di mani
le vostre mani che suonano
e le nostre che applaudono,
mani che sole restano ad ascoltare
mani che si salutano
mani che vanno via
cantando sulla strada
la musica fatta di mani.





(In foto in ordine di apparizione: Le mani del fonico del Muddy Blue, le mani di Gibson, Scrigno+
Roberto Lacchini alias Rock'n'roll Animal, Monicanta e un attento avventore)



martedì 3 giugno 2008



“Ahii, mi fai male….ok così oh si così”



La finestra era appena socchiusa e la tenda sbuffafa qualche spiraglio di aria fresca. Lei era sdraiata, la schiena nuda, numerosi cuscini sotto la guancia talora affaticata, talora rilassata. Nel silenzio afoso della domenica pomeriggio riecheggiavano i suoi gemiti, mentre il respiro affannoso di lui si intervallava agli ansimi di lei, come virgole posate qua e là.



“Si ci sei, è quello il punto… si così adesso…” e le mani di lui scivolavano ancora più velocemente sulla pelle di lei, a toccare, a premere a carezzare fino a che le forze non cominciarono a venire meno e la fatica di lui si risolse in poche parole “ma non è meglio che chiamiamo il chiropratico?”



“No, zitto e massaggia.”



(sottotitolo.... ho di nuovo il mal di schiena)