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giovedì 4 settembre 2008





C'è questa estate che è ancora in giro, come le mille cose che ho messo in valigia e che non ho ancora voglia di ritirare al loro posto. Oggetti occupano spazi che non gli appartengono e creano quell'atmosfera caotica che sembra molto più casa di quell'ordine intonso che ha aspettato il mio ritorno.

E c'è questo autunno di nuova stagione, un palinsesto offerto in sconto, almeno questo dicono le pubblicità, un ordine precostituito che si insinua nelle serate vuote.
C'è quel film che mi viene in mente "questo è il mio spazio, questo è il tuo spazio". Avevo imparato così bene a stare rigida sulle punte e mantenere le distanze con le braccia rigide, poi è arrivata l'ernia e niente più tacchi. E' bastata una semplice debolezza alla caviglia per aver bisogno di allungare la mano e trovare qualcuno pronto a sorreggermi.
Così questa estate che non vuole essere sezionata nei rispettivi cassetti, ha annullato gli spazi. Tutto è stato così piccolo e condiviso: la macchina, le camere sparse per la Francia, il micro appartamento del mare. Ci siamo invasi gli spazi, abbiamo rilassato le braccia e abbiamo danzato. Ho sentito scricchiolare quel muro di ghiaccio sotto il calore di una condivisione perfetta, sotto il peso incessante del bisogno di credere totalmente a chi dorme accanto, un bisogno dapprima fisico e poi morale. Vacillano le mie convinzioni e gli equilibri che mi avevano insegnato a non avere, in fondo , bisogno di nessuno per stare in piedi.
Penso che scegliere di abbattere gli spazi, sia un bisogno di sentirsi imperfetti, deboli a volte, e dannatamente amati. Implica una scelta, univoca, indissolubile, irreversibile. Significa giocarsi tutte le carte, non tenere aperte delle porte, non giocare in difesa e questo fa paura, dannatamente paura. Abbattere tutte le stampelle che mi sono costruita in anni di solitudine e cinismo, in anni di ricostruzione di dignità e amore proprio. Implica rischiare tutto, scommettere fino all'ultimo centesimo su un cavallo che non è dato poi tanto per vincente e non mi è ancora chiaro se è tutto dannatamente stupido o dannatamente bello. Ritrovarsi, annullarsi, moltiplicarsi..... fidarsi...... fondersi

martedì 11 marzo 2008

Dedicato a Santaruina....


IL MIO MARE DI SETTEMBRE


(zio little riconosci?)



Le vacanze all'epoca duravano quaranta giorni, venti passati con mamma e papà e venti passati con i nonni. Si partiva il 1° di agosto e ci si trovava tutti in coda alla barriera di Mestre, in quegli anni in cui non c'era il climatizzatore in auto e si partiva al mattino presto per non sentire il caldo ... ma poi si finiva a fare in otto ore 376 Km con la borraccia della Giostile e la borsa dei viveri della mamma. Mi è talmente rimasto tatuato nei ricordi questo rito che, ancora oggi, se parto per un viaggio non dimentico di mettere in borsa qualcosa di salato (i TUC) e qualcosa di dolce (I Loacker), per la gioia di mio marito che si diverte a sfottermi, lui, rude bikers. Mia sorella ed io ce ne stavamo tranquille nei sedili posteriori a giocare a barbie prima e ad ascoltare lo stereo poi, cercando di socializzare con le altre macchine affiancate e immobili nella colonna di fianco.


Era il momento dell'anno dove finalmente potevamo coccolare papà, durante l'anno lo vedavamo così poco, ma lì non aveva scuse. I primi due giorni dormiva, reduce dall'estate a dorso nudo in cantiere, con il cemento che maturava sotto i piedi e la polvere e la terra che si insinuavano in ogni piega della pelle e in ogni goccia di sudore. Gli facevamo ogni dispetto, ogni gioco e lui ci costruiva i castelli e le macchinine di sabbia più belle della spiaggia. Nuotavamo con lui, eravamo sempre gli ultimi a salire dalla spiaggia sia a mezzogiorno (con mamma che strillava perchè il pranzo era pronto da un pezzo) sia la sera. Tipico era (e tipico è) tornare a casa con i capelli bagnati e gli asciugamani avvolti al corpo, con i piedi sporchi di sabbia, mentre le pizzerie, il lungomare e il viale, erano già pieni di gente agghindata e profumata.


E poi la compagnia di amici. Alcuni sono ancora nella mia vita e pensare che ci siamo conosciuti quando nessuno di noi sapeva cos'erano gli ormoni, e invece adesso siamo sposati o conviviamo, qualcuno ha figli da un pezzo. Nel 1991 abbiamo toccato il record: eravamo 41 in compagnia. E' facile immaginare la confusione, l'allegria, i giochi. Poi arrivava il 20 di agosto, mamma e papà partivano e arrivavano i nonni. Contenta certo di passare l'estate con loro, ma triste perchè mamma e papà erano lontani. Ogni sera facevamo la fila alle cabine del telefono con il sacchetto dei gettoni in mano e poi ci consolavamo con il cono gelato ricoperto di cioccolata e nocciole... ora sapete perchè non sarò mai magra :).


Poi iniziavano le partenze, uno stillicidio di indirizzi scambiati, pianti e "giuro che ti scrivo". Al 31 era inevitabile restare sola, ma la cosa non mi dispiaceva affatto. Per il paese iniziava a sentirsi parlare tantissimo dialetto caorlotto e il tedesco, il milanese e il torinese tornavano ai loro luoghi di origine. I ragazzi e le compagnie autoctone si ritrovavano finalmente più liberi dopo tre mesi di lavoro pesante. E poi la spiaggia. Ai primi di settembre iniziavano a smontare le cabine e restavano solo tre o quattro file di ombrelloni. I bagnini (miei amici) smontavano, lavavano e riponevano tutto e la spiaggia restava nuda e meravigliosa. La maggior parte del tempo il mare era agitato e io restavo lì a contemplare i temporali di fine estate con mia nonna che cristonava e mi raccontava storie di bambini morti perchè era caduto un fulmine e loro avevano i piedi umidi. E mi ricordo perfettamente quell'anno, il 1986, avevo dieci anni ed ero innamorata di quella canzone di Edie Brickell che era semplicemente perfetta in quell'atmosfera di amici che erano partiti e di mare grigio. Ho talmente rotto le scatole con quella canzone che mia sorelle mi ha fatto una fotografia mentre ero lì attaccata al juke box del chiosco della spiaggia. Capelli fino alle spalle, mollettina, pantaloncini corti e golfino, ero quasi una tedesca perfetta. Mi piaceva crogiolarmi in quella tranquillità, mi sentivo quasi una del posto e mi inserivo in quella vita più "normale". Sarà per questo che mi sento davvero una del posto e sarà per questo che solo lì mi sento a casa.


mercoledì 27 febbraio 2008

non so se l'ho già scritta questa pagina di diario... ma mi piace ricordarla questa sera e la riporto


DIARIO DI VIAGGIO: EDIMBURGO AGOSTO 2007


PEOPLE EAT


(dedicata al ragazzo fantasma che vedete nella foto)




"Fammi fare un tiro". Lui non alzò nemmeno gli occhi, non si scompose e allungò semplicemente il braccio verso di me.


"Sei pallido, fa freddo... non senti freddo?" Silenzio.


Guardai lì dove i suoi occhi stavano guardando e mi sedetti accanto a lui. Proprio dove lui era seduto. Vedevo gente passeggiare, un vociare non troppo sommesso e poco adatto al posto in cui ci trovavamo, rimbalzava tra il prato e gli stretti vialetti dissestati. Certo, anche noi non eravamo poi così adatti a quel luogo, seduti con le gambe incrociate a passarci una canna.


Dopo un tempo sospeso tra l'attimo e l'eterno, si girò verso di me mentre, le mani pallide rimasero a ciondolare oltre le ginocchia. "People eat" disse "La gente mangia". Stupidi turisti passeggiavano su lapidi di vite esistite, su storia che era pietra, pietra sulla quale io sedevo, testimone, narratrice, custode della memoria della città antica come di quella futura. "La gente mangia. Guarda, su quella tomba che fu vita, quel vecchio obeso, rosso in viso e incolore nell'anima, mangia. Lì seduto sopra una tomba, icona dei vermi che divorano corpi, lui mangia il rispetto e la memoria. Si ingozza con il silenzio della storia, che nella sua bocca diviene rumore del niente. Mangia. Mangia la mia città".


Allora alzai anche io lo sguardo e vidi i turisti, gli stessi di un attimo prima, gli stessi che ora prendevano identità e colore, uscendo dall'ombroso rumoreggiare strisciante per ogni via. "Loro vivono" Riuscii solo a dire, accusando subito il peso di parole così leggere. "Loro vivono se la vita è mangiare, surclassare la morte, non avere paura. Ci sono vite davanti ai miei occhi? c'è chi capirà il valore di queste lapidi? C'è chi le userà per ritrovarsi? Qui dormono coloro che hanno fatto di un attimo un'eternità poichè essendo Esistiti esisteranno in eterno e l'oblio cancellerà solo la forma ma non la sostanza".


"E' questo quello che vedi?"


"E' questo quello che vedo."


"E se tu non vedessi... cosa vedresti?


Mi voltai verso di lui, nessuno mi era seduto accanto su quella lapide. C'erano le parole, o forse solo il silenzio di un attimo. "People eat"


sabato 1 settembre 2007

glasgow e annat

un altro stralcio del mio diario, scritto ad Annat il 06.08.07




Fuori l'heur bleu ha lasciato posto alla notte del lago, quasi integralmente nera, se non fosse per qualche luce tenue lasciata accanto alle graziose finestre dei cottage.


Il lago dorme nella bambagia dei monti, abbracciato dal silenzio, cullato dal vento. Sul vetro dell'abbaino della Signora Ferroch, ove sono ospite, battono leggere gocce di pioggia micronizzata e fredda e pungente e linfa sul mio viso ridestato da tanta vita silenziosa e naturale.


Guardo allo specchio il mio viso senza trucco, vedo i miei capelli completamente arricciati e indomabili e mi vedo bella. Non per il mio corpo, quello certo no, ma per quella luce che scopro lì in fondo all'immagine di me riflessa.


Sento lontano il grigiore di Glasgow dalla quale sono partita questa mattina. Pessima città Glasgow. Emblema di tutto quello che la produttività non dovrebbe produrre. Grigio nel cielo soffocato da fiumi e cemento, grigi gli edifici lasciati pascolare sotto una pioggia grigia anch'essa.


Grigio il fiume che ospita grigi cantieri dalle scheletriche dita d'acciaio. Grigio il tentativo di provocare con l'architettura moderna, grigia imitazione del scintillante bankside londinese. Le uniche luci scintillanti e gli unici colori vivaci si trovano, ben ordinate e magistralmente dirette dalla bacchetta del marketing, nella merchant city dove mocciose vestite di tutto punto saettano da vetrina a vetrina agitando e mostrando, come trofei di caccia, shopping bags d'autore colme di ogni dettame delle mode. Cozza disgustosamente con la zeccheria del Barras, dove l'unica cosa che è ben esposta sulle bancarelle, è la povertà. Non tanto i mercanti, quanto piuttosto le paccottiglie in vendita, puzzano di polverose vite in declino svendute in seconda mano su bancarelle ammassate. Ben lontano dal vintage, decisamente non paragonabile al creativo melting pot di camden town, resta solo occasione per qualche affare. Ecco fatto, "qualche altro affare", anche la povertà di Glasgow è assoggettata a quella grande risorsa, divenuta per sua stessa mano, grande piaga: il business. Si sono rincorsi nei secoli i magnati delle industrie e si rincorreranno in eterno, dato che hanno fatto anche della necropoli, motivo di concorrenza e supremazia. Ne restano pessimi quartieri e gotici monumenti funebri.


C'è il piglio di cambiare le cose, trovare un'identità, dare voce alla gente di Glasgow come dimostrano al People's Palace, di oggetti che rivendicano la quotidianità della vita vera. Ancora meglio l'agghiacciante Tenement's house, dove la povertà diventa un curioso monumento per i turisti. Glasgow è una città nata e poi morta, che mi auguro riprenda forza dalla cultura esposta nei diversi musei, o suonata nel festival estivo. Mi pare di vedere una Milano dei peggiori anni '70. Spero che anche Glasgow possa maturare come ha fatto Milano, facendo del business un punto di forza trainante, se è questo che vuole, ma non dimenticando che una città è viva quando vite degne di questo nome, la popolano.


sulla strada verso Annat



La finestra della signora Ferroch



E la nostra mascotte: EGLEFINO


giovedì 30 agosto 2007

Le cose da scrivere sarebbero tante ma sono stata un po' zingara in questi giorni. Intanto vi copio in formato digitale un appunto cartaceo scritto il 09.08.2007 dalla città di Ballater dove erano in corso i Giochi Celtici.



Seduta al tavolo del ristorante, fortunatamente vicino alla vetrata, mangio il mio salmone con patate condito con crema di formaggio. Solo il mio corpo è seduto a cenare, la mente è fuori, sulla strada appena dietro il vetro sottile.


Suoni di cornamuse riecheggiano ad ogni angolo del paese ed è tutto un movimento intorno. Sento la pulsione irrefrenabile di alzarmi da questa immobilità, di abbandonare quest'aria chiusa, scalciare questa sedia ingombrante.


Guardo, con mal celata invidia, i volti che camminano sul marciapiede. Volti che sembrano assolutamentoe sapere dove andare. E' un'invidia già provata per i londinesi, perennemente in movimento, decisi, curiosi e vivi... ed io così immobile.


Prima, nel prato adiacente alla chiesa, ho visto una compagnia di amici. Due di loro giocavano con finte spade e poi si sono abbracciati e rotolati sul prato e una terza, subito dopo, si aggiunta con una capriola al tafferuglio di risate e condivisione.


E poi ancora, guardo gli occhi della cameriera che nel frattempo è giunta al tavolo a chiedere se desidero ancora qualcosa (e Dio solo sa quanto io voglia ancora). Anche lei, come me, è dentro questa scatola a forma di ristorante, ma i suoi occhi cercano la vita fuori dalla vetrina dove gli amici la stanno aspettando al bar di fronte, intasato di cornamuse e risate.


Non resisto, devo uscire. Ho bisogno di una birra, ho bisogno di aria, ho bisogno di una strada e di uno sguardo sicuro che sa dove andare. Ho bisogno di vita da vivere, di solitudini che mi riempiano l'anima. Impazzirò, ne sono certa, se non troverò il modo di appartenere a me stessa.





martedì 14 agosto 2007

Stop & go di ritorno dalla Scozia e in partenza per il mare... Vi lascio un appunto di viaggio.




EDIMBURGO


Porte vicine, salite, cab.


Luci, tacchi, passi, sguardi.


Cellulari, auricolari, occhi silenziosi. Pizza, kebap, indù, tahi, fish & chips.


Chilometri di lingue arrotolate sui marciapiedi, cinture, infradito, zeppe.


Uniformi, difformi, conformi.


Brividi mal celati, piedi torturati.


Urla, semafori, wait, incroci, rumore, clamore, festival, carnival.


La mia lingua, la sua bocca.


Un urlo, il mio... il silenzio, della città.


Un attimo, infinito, un'apnea nelle strade.


Acqua nelle orecchie, carne nella bocca, sangue nelle vene, cuore nella mente,


cervello nell' anima.


Sogni nel mio letto.... notte.



lunedì 30 luglio 2007

Quello che mi fa impazzire della natura è che si lascia domare. Il deserto, terra sacra degli indiani, può diventare un campo da golf per ricchi turisti annoiati, basta che l'uomo pieghi la terra al proprio volere.



... Peccato che poi la natura trova sempre il modo per metterla in quel posto... e un metro dopo il tuo fantastico attraversamento caddie, trovi un altro cartello.... un po' meno rassicurante



I do not know why but I feel myself like the nature