venerdì 18 maggio 2007

Eccomi. Oggi vorrei postare un racconto, una cosa un po' lunghetta lo so e terribilmente melensa, però m'è presa così. E' dedicato a mio nonno, visto che ieri sarebbe stato il suo compleanno.... e lo dedico anche al mio amico Anto, che un anno fa.... bhè ecco... lo sapete già cosa accadde (o potete leggerlo nei vecchi post)



Romagna mia


A mio nonno




Campagne bolognesi: 1954



L’ultimo tremolio e lo sbuffo del camion segnavano l’arrivo dell’ora di pranzo Il caldo polveroso della cabina era tutto colato, chilometro dopo chilometro, sulla schiena madida. Un cigolio e la portiera chiusa. Ecco lì, il fontanile del cortile. Ero già stato in quella trattoria, in fondo perché rischiare quando si sa dove trovare un buon piatto e un prezzo modico? Con una mano spingevo lo stantuffo della pompa e con l’altra mi passavo l’acqua sul viso, sulla nuca, sulla testa arrossata e già mi sembrava di essere più riposato. Mentre mi asciugavo e mi infilavo la camicia, che avevo tenuta appesa per non sgualcirla e bagnarla di sudore, sentii alle spalle dei passi polverosi:


“Mo vè, ha picchiato forte il sole oggi. Senta non è che mi spinge la pompa che mi rinfresco un po’” Mi girai e vidi quel signore dal vestito distinto e la faccia sorridente. Non sembrava certo uno dei camionisti che erano soliti fermarsi a quella trattoria. Portava dei pantaloni scuri e una camicia bianca con le maniche rabboccate e si asciugava il viso addobbato da sottili baffetti e radi capelli ordinatamente imbrillantinati. Sorrise con due labbra sottili e uno sguardo diretto. Pompai per lui l’acqua e senza troppo dilungarmi, mi diressi, con il mio solito passo deciso, alla porta del locale.



“Ma eccoti qua Coca! Era un po’ che non passavi da queste parti. Adesso ti trovo un posto per sederti, è che siete arrivati tutti adesso, sembra che vi siete dati l’appuntamento”. Aspettai all’ingresso, tra il bancone del bar e la porta spalancata, mascherata con una tendina di perline. Il locale era semplice, un piccolo bar e una grande sala dalla quale proveniva un gran vociare, ma il cibo era sincero e dopo tante ore di guida alle spalle, un bel piatto di pasta era l’unica cosa che poteva rimettermi al mondo.


“Ma sai che oggi è un bel disastro? Senti, ti offendi mica se ti metto a tavola con quel bel signore. Ci si è rotta la macchina e Berto gli sta sistemando il motore”


“Non sta a preocuparte, me basta che te me porti un piatto dei tui che go na fame da magnare anche le gambe dela tola”, risposi anche se avrei certamente preferito mangiare in tranquillità. Sperai almeno in un commensale riservato ma, giusto il tempo di versarmi un bicchiere di vino fresco e di sistemare le posate, e vidi arrivare la Nives con un bel piatto di tagliatelle alla bolognese e il signore del fontanile.


La Nives faceva una pasta che era una bomba, quasi come quella di sua moglie. Quasi certo, che come le faceva la Bianca le tagliatelle non le faceva nessuno! E già la vedeva comparire davanti ai suoi occhi mentre tirava la pasta con quel mattarello enorme, con i capelli, neri e morbidi, fermati dietro le orecchie con due pettinini e i butini lì intorno. Ogni viaggio era la stessa danza di malinconica fatica. Il padrone sapeva che lui non si addormentava sulla strada e così gli affidava un viaggio dietro l’altro. Alle volte andava fino in meridione anche due volte alla settimana. Viaggiava instancabile per ore, scaricava le botti e poi ripartiva con la voglia di tornare a casa in fretta e una schiena piagata.


“Eccoci qua, mi dispiace se la disturbo. Piacere mi chiamo Secondo”.


“Ben ben se senta, mi me ciamo Augusto”. E continuò a mangiare la sua pasta fumante.


L’altro iniziò a chiaccherare, raccontò di quel motore che non ne voleva sapere di ripartire, che era stato fortunato perché la macchina si era fermata poco distante da lì e aveva trovato il fantomatico Berto che pareva fosse il mago del motore. Che era lì di passaggio, doveva raggiungere la riviera che lo aspettavano per sera e sperava proprio di arrivare in anticipo e potersi riposare, ma che probabilmente non ce l’avrebbe fatta con la macchina in quelle condizioni.


Io ascoltavo più che parlare. La mia testa non era certo seduta a quel tavolo. Non riuscivo a smettere di pensare che avrei preferito stare tranquillo, che volevo riposare, tornare presto al paese, che non vedevo l’ora di fare una bella dormita nel mio letto. Il giorno dopo sarebbe stata festa forse sarei riuscito a stare un po’ tranquillo.


Secondo non taceva un attimo. Parlava e gesticolava con quelle mani bianche e morbide, le avevo notate subito. Non erano certo mani da operaio, le mie invece erano forti e segnate dai calli, scottate sulle nocche per il sole preso alla guida. Poi mi guardai quella mano sfregiata, avevo perso una falange del dito medio a cinque anni, facendo il facchino alla stazione del paese per portare a casa, magari, un kg di zucchero.


“Ma te non mi dici niente? Com’è che ti sei fermato qua?”


’Sa voto che te diga? Ho fatto la tratta fino a Napoli e adesso sto tornando indrio a e me son fermà qua parchè noi altri se fermemo sempre dalla Nives quando passero. I xè brava zente, il Berto ci sistema le gomme intanto che magnemo e la Nives sta in cucina.”


“Ma quanti giorni l’è che sei in giro?”


“Tre giorni”


“Hai figli?”


“Cinque”


“Cinque? Ma quanti anni hai?”


“I prossimi son trenta”


“Un brindisi ai cinque figli”. Poi fece una rarissima pausa di silenzio e poi incalzò nuovamente “Ma com’è che fai questo mestiere?”


“Ma insomma, avevo fatto la patente e poi la guerra. I tedeschi mi hanno messo sui loro camion e io avevo i figli a cui pensare.”


“Già la guerra… a noi ogni tanto i tedeschi ci caricavano e ci facevano suonare per la truppa, per gli ufficiali.


“Sito un cantante?”


“Un musicista! Ho un’orchestra suoniamo in tutta Italia, mai sentito parlare dell’orchestra Casadei?”


“Ma, sa voto, son sempre in viaggio e non go la radio.”



Il ricordo della guerra aveva sciolto gli imbarazzi e le ritrosie. In fondo il commensale era gentile e il suo accento bolognese lo rendeva oltremodo simpatico. Mi misi a parlare con lui della musica e gli dissi che amavo suonare la fisarmonica. Lui fu gentile mi disse che potevo provare a suonare qualcosa con la sua orchestra, ma non ero fatto per la vita del musicista. Era nato per lavorare e per essere padre, proprio io che il padre lo aveva perso da bambino. Sono sempre stato l’uomo di casa, lo ero a cinque anni, figuriamoci a trenta!


Secondo si versò un altro bicchiere di vino sincero. Era assorto, stranamente e fortunatamente silenzioso. A guardarlo bene sembrava anche un po’ triste, poi chiese “Ma cosa da la forza per continuare questa vita?” ma non capii se parlava con me o ragionasse a voce alta. Poi in un attimo tornò sorridente e guardandomi in faccia mi chiese, questa volta più diretto, “Cosa ti passa per la testa mentre guidi solo per giorni?”.


Ma cosa voleva che pensassi? Mi stava prendendo in giro? Era stato cortese, e volli rispondere all’ennesima domanda. “Penso alla Bianca, che è a casa con i fioi.Quattro femmine e un maschio! Penso alla mia casetta là spersa in campagna, penso a me mare che magari la ga bisogno e xè là in paese, solite cose insomma, non si può stare troppo lontani da casa perché la testa resta sempre là



Secondo ascoltava attento. Pensava che la storia di Nino, non era poi tanto diversa dalla sua che pellegrinava per l’Italia per portare in giro il suo spettacolo. Poi pensò a quanti lì nella sala, condividevano lo stesso destino. In fin dei conti erano anni di un’Italia in movimento, gente che dal sud migrava al nord o dalle campagne del Veneto, dal Polesine per recarsi nelle grandi città industriali, dove si millantavano posti di lavoro per tutti. Q uanti stavano sentendo la nostalgia per la propria casa? Legnago o Forlì, il Veneto o la Romagna, legati da uno stesso destino.



Si era fatto fin troppo tardi, dovevo mettermi in marcia o non sarei riuscito ad arrivare in tempo per scaricare il camion e tornare al paese in un orario decente. Mentre mi asciugavo la bocca con il tovagliolo e mi preparavo ad andare via, vidi Secondo frugare nel borsello. Ne tirò fuori una radiolina nera, uno scatolotto con una manopola e mi disse “Ma portati via questa qua che te la senti intanto che guidi, così ti fa compagnia e magari qualche volta mi senti suonare”.


Una radio! Non volevo accettare, non potevo, ero sempre stato abituato a guadagnarmi da solo le cose. Lui insistette tanto e alla fine mi convinse.


Uscìì quasi di fretta dal locale. Mi tolsi la camicia, la riappesi al gancio dietro al sedile e misi in moto. Non sapevo cosa pensare e partii commosso per il regalo appena ricevuto. Una radio!



Secondo restò ancora un attimo seduto al tavolo, prese carta e penna e iniziò a scrivere.



***


Caorle, 1984.



Dal locale lungo il viale del centro arrivavano le note della solita orchestra. Il pubblico cantava e danzava sulle note di quella ballata ormai popolare.




SENTO LA NOSTALGIA D'UN PASSATO,
OVE LA MAMMA MIA HO LASCIATO
NON TI POTRò SCORDAR CASETTA MIA
IN QUESTA NOTTE STELLATA
LA MIA SERENATA IO CANTO PER TE.

ROMAGNA MIA, ROMAGNA IN FIORE,
TU SEI LA STELLA, TU SEI L'AMORE.
QUANDO TI PENSO, VORREI TORNARE
DALLA MIA BELLA AL CASOLARE.

ROMAGNA, ROMAGNA MIA
LONTAN DA TE NON SI PUò STAR!


Avrei potuto sentirla un milione di volte, ma avrei provato sempre la stessa morsa al cuore. Era inevitabile non tornare a quel lontano tramonto estivo. I bambini scalzi che correvano per i campi lì intorno, poi ogni tanto tornavano alla pompa davanti a casa e facevano a turno a bere quell’acqua deliziosa. Io era seduto fuori dalla porta. Bianca lì accanto, seduta sul gradino a godersi un po’ di riposo. Era domenica, aveva fatto la torta margherita e ne stava mangiando una fettina avanzata. Avevo il viso abbronzato e gli occhi socchiusi quando, ascoltando la radio appoggiata all’orecchio, sentii annunciare la nuova canzone dell’orchestra Casadei, dedicata all’amico Augusto…



ROMAGNA MIA…








( buon compleanno 17 maggio 2007)


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