lunedì 12 settembre 2011



Ero in ufficio, sola, come da tempo capitava troppo spesso. Lavoravo tenendo accesa in background la chat, così restavo in compagnia di colleghi virtuali. Fu Scinda a cambiare il topic del canale “siamo in guerra“. Non diedi importanza a quelle parole, pensavo si riferisse ad un gioco. La mia generazione non conosce la guerra se non quella dei games. Poi delle persone iniziarono ad entrare in ufficio e a chiedermi se c’erano novità. Novità a che proposito? Accesi la radio, “siamo in guerra”, questa volta a dirlo era un giornalista, tutti i giornalisti. Chiamai mia madre e cercai di capire. “Tua sorella piange, puoi tornare a casa?” In quel momento arriva la mail del presidente “non abbandonate il vostro posto di lavoro” Cosa stava accadendo? Chiusi l’ufficio con il cartello “torno subito” e attraversai la strada, al bar di fronte avevano una tv. Arrivai giusto in tempo per vedere il secondo aereo schiantarsi contro la seconda torre. “un terribile incidente” dissi. Mi spiegarono che non era un incidente e che già prima un aereo aveva colpito la prima torre. Le immagini degli aerei contro i grattacieli venivano riproposte all’infinito, ma la mia testa non registrava il dato. Erano immagini surreali, la logica non connetteva le immagini con l’accaduto, troppo, troppo. Ritornai in ufficio, ma feci altra spola al bar per vedere le immagini. Arrivai di nuovo quando la prima torre implose. Chiamai mia madre, dov’era Fabio? In metropolitana, doveva prendere la metropolitana, non ce l’avrebbe mai fatta. Eravamo in guerra. Dovevo tornare a casa, prendere mio nipote, che all’epoca dei fatti aveva due anni e portarlo in svizzera. Riuscivo a pensare solo a questo, mentre arrivavano dispacci dalla sede; il mondo non può cedere al terrorismo, non abbandonate il posto di lavoro. L’occidente. Tornai a casa il prima possibile, ma non subito. Mia sorella era sotto schok, era stata su quelle torri un paio di anni prima, era stato da sempre il suo sogno. New York, le torri gemelle, l’America, macerie. Non riusciva a reagire, mio cognato non rispondeva al cellulare perché le linee erano intasate. Le immagini in tv riproponevano i crolli e, dall’altra parte del mondo qualcuno che festeggiava la morte. Non so cosa farò pi
Fatica a scordare, se un edificio che crolla o qualcuno che ne è soddisfatto. Esiste una cultura di morte, qualcosa di lontano da me così tanto lontano che la mia mente non riusciva a portare a termine il naturale processo di consequenzialità.
Non riesco a capire, la mia generazione non conosce la guerra e ne è circondata, ma continuo a non capirla.



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